Wednesday, July 28, 1999

E Mozart si inchinò di fronte a Traetta

A chi si deve il più bello fra le decine di Stabat Mater settecenteschi? Quasi ogni lettore risponderebbe a Pergolesi, non foss’altro per la schiacciante fama dell’opera di un genio che scopriva appena se stesso e morì prima che la scoperta non l’avesse costretto a tirarne le conseguenze, salvo che con la Messa in Fa maggiore. Il suo, nei garbatissimi riccioli, nelle simmetrie Rococò, è il più delizioso. Il più bello è quello del giovane Haydn, che corrobora della forza linguistica del Classico il figuralismo (o pittura musicale: “ut pictura poësis”) e il patetico della musica napoletana, ancor riccheggianti. Ovvero, a trovargli un diversissimo rivale, quello di Domenico Scarlatti, che per essere di nascita napoletano non potrebbe apparire nella ferrigna polifonia a otto voci accostabile ai Mottetti di Bach. Ma nemmeno al secondo posto collocherei Pertgolesi, chè lo Stabat di Tommaso Traetta, vibrante di dissonanze, fremente di pahtos legato ai versi della Sequenza, è di quello di Haydn il più stretto parente.
Visse Tommaso Traetta assai poco (1727-1779) e tirò all’ultimo vita stentata.
Il settanta per cento dei grandi della cosiddetta Scuola Napoletana, oggi rosi tutti da una tabe, la falsa attribuzione a un Barocco in parte da loro distrutto, è fatto di pugliesi. Uno dei maggiori, Traetta, originario di Bitonto, non fa eccezione. Eccezionale è la sua posizione cronologica che, con il del pari grande Jommelli, ne rende più difficilmente tutelabile la memoria. L’uno e l’altro, il secondo, almeno, proveniente dal contado napoletano, sono simultaneamente antesignani e protagonisti del linguaggio dell’incipiente Classico. E tale linguaggio ora esprimono in ammirevole pienezza, ora per connotati esterni, ora con sovraccarico sperimentalismo: chi li penserebbe lontani cugini di Carlo Filippo Emanuele Bach? Laddove, l’altra faccia della loro medaglia porta fossili Rococò propri dell’anteriore generazione: onde una patina antiquata ed eterogenea talvolta aduggiante i frutti dell’arte loro.
Insieme con Jommelli, gode Traetta dell’ambigua fama d’esser stato, ancora, antesignano della cosiddetta “riforma drammatica” teorizzata da Raniero Calzabigi e attuata da Gluck. Noi possiamo più modestamente considerarlo tra i grandi operisti del suo secolo, purtroppo solo dopo la lista dei tedeschi italianizzati, culmine Mozart e Haydn.
Che a Traetta si debbano prodotti anomali rispetto allo schema pan-europeo dell’Opera napoletana, è un fatto. Alcuni scaturiscono dall'esser egli stato maestro di Cappella dell'infranciosata corte di Parma. Ivi (1758) compose Ippolito ed Aricia, nel nostro secolo mai eseguito, a differenza di due capolavori quali L'Ifigenia e la Sofonisba, risonati almeno una volta ma accolti da orecchie non sempre capaci di attribuir loro il giusto peso. Il più gentile di tutti i Festival italiani, quello della Valle d'Itria e incentrato a Martina Franca, non poteva, nel proprio venticinquesimo anniversario, non inserire nel suo programma folto e attraente per l'intelletto e le orecchie la testimonianza di un Grande della sua terra.
La scelta dell'Ippolito è da far tremare un Festival immenso; per le difficoltà e la dispendiosità, innanzitutto musicali, nell'allestimento. La partitura impone una serie di virtuosi del Bel Canto nel senso stretto del termine, ossia settecentesco e legato alla concezione vocale sviluppatasi per i castrati. La parte protagonista,quella di Aricia, vuole una virtuosa capace di eccellere tanto nell'intensità patetica della melodia lenta e "spianata" quanto nel più ardito giuoco di sfiorettature, con alcune Arie che acquisiscono le dimensioni monstre di quelle del Lucio Silla di Mozart, e di questo condividono il profumo. Ancora una volta la carissima Patrizia Ciofi si mostra in grado di dare mirabolanti lezioni di stile, di tenuta di fiato, di sgranatura delle note ornamentali, della più toccante espressione nella pronuncia e nel fraseggio e nel timbro. Se si pensa che l'organico vuole altri tre personaggi sopranili, uno dei quali è Ippolito, richiesti di quasi pari ardimenti, si comprenderà meglio: per una sola Aria, cantata dal deus ex machina, Diana, occorre un'altra virtuosa del calibro di Stefania Donzelli, che la canta da par suo. Alle felicitazioni per le due stelle italiane vanno aggiunte quelle per lo scrupolo professionale e la competenza del concertatore e direttore, Daniel Golub.
Il libretto dell'Ippolito è dell'abate Frugoni strutturato giusta quello, da tarda Tragédie Lyrique, dell'omonimo capolavoro di Rameau. Si resta stupefatti di fronte al travestimento stilistico del Bitontino, che nelle Danze pertanto prescritte si conforma da Proteo al gusto della più estranea Nazione europea e produce una partitura di balletto in quel gusto solenne, severo, astringente, tra le più belle del secolo.
Lo stile drammatico di Traetta nulla ha di "riformatore" nella fattura e nell'ethos delle Arie: chi possiede la grandiosa concisione di Gluck? Esse tendono invece, si ripete, alle dimensioni monumentali degli ultimi tempi dell'Opera-concerto, pur senza le contaminazioni di Sonata culminanti in Mozart e Haydn. Una parte risulta, come detto, appesantita da orpelli antiquati, come quelle figurazioni "puntate" nel cosiddetto "ritmo lombardo", fiacca eco di Porpora e Hasse. Una parte è manifestazione di pura e astratta bellezza.Una parte è inquietante sprofondare in abissi di dolore proprio ai maggiori della Scuola Napoletana. Una parte, in tonalità maggiori, il dolore lo contempla col miracolo di una linea melodica trasfigurata e già interamente classica: e Mozart deve chinar il capo di fronte a Bitonto e Napoli.
Isotta Paolo, Corriere della Sera